la storia del glam-rock inglese raccontata attraverso gli occhi di un giornalista che si ritrova ad essere protagonista e narratore di un movimento culturale e sociale che ha lasciato, oltre al trucco dai colori sgargianti e alle zeppe, un’eredità musicale di indubbio valore. tutto questo il regista lo fa reinventando una narrazione in stile noir dove personaggi reali e di fantasia si mescolano e la musica pervade lo schermo.

 

la vita di un uomo è la sua immagine
kurt wild (ewan mcgregor)

presentato al festival di cannes 1998 e terzo film diretto del regista todd haynes, velvet goldmine, dopo un’uscita in sordina, diventa col tempo un cult, affermandosi come una delle opere cinematografiche più originali ed interessanti del decennio. è difficile classificare velvet goldmine in un singolo genere: biografia, dramma, musical, opera rock, apoteosi del kitsch… nel film c’è tutto questo, ma anche molto di più. il fulcro della trama è il racconto della fulminea ascesa al successo e dell’altrettanto rapida caduta di un immaginario idolo del rock, brian slade, chiaramente ispirato al celebre cantante david bowie e al suo personaggio ziggy stardust. l’elenco delle citazioni e delle comparse celebri (dietro e davanti le quinte) risulta lunghissimo: dalla partecipazione di michael stipe alla produzione, alle interpretazioni dei brani in voga all’epoca di thom yorke, all’esibizione dei placebo. le analogie tra personaggi/artisti sono diverse e palesi (iggy pop e lou reed). sotto l’apparenza di una biografia musicale, l’opera può essere definita addirittura come un atipico remake di quarto potere: la geniale trovata di haynes, in tal senso, è stata quella di ricalcare la medesima struttura narrativa del capolavoro di welles rielaborandola seconda un’ottica decisamente postmoderna. il film parte proprio dal falso omicidio del protagonista, che aveva segnato il suo inesorabile declino, per poi saltare a dieci anni più tardi, quando un giornalista riceve il compito di ricostruire gli eventi legati alla scomparsa della star. raccogliendo le testimonianze delle persone che lo avevano conosciuto, al tempo stesso, l’uomo si troverà ad intraprendere un viaggio nel passato e a ripercorrere la propria adolescenza, vissuta proprio durante gli ambigui anni del glam. la storia diventa quindi un modo per entrare nell’atmosfera della londra dei primi anni ’70: le mode effimere di una generazione in cerca di modelli da imitare, la diffusione del glam-rock e la sua influenza sulla rivoluzione della mentalità e dei costumi. tutto ciò rappresentato grazie ad una regia spiazzante e ricca di fantasia, capace di coinvolgere ed incantare lo spettatore, e che non ha timore di introdurre elementi stravaganti e trasgressivi che non risultano però fini a loro stessi ma contribuiscono a creare un’opera intelligente e venata di amarezza, sfiorando argomenti come quelli del malessere giovanile, della finzione come suprema forma d’arte e della fragilità che si nasconde dietro al successo.

 

 

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